Fino a un decennio fa circa, il sake era quella bevanda – soprattutto calda, che non è il modo migliore per berlo generalizzando un po’che qualcuno si arrischiava a ordinare nei ristoranti giapponesi per fare il figo, in alternativa alla birra nipponica o più probabilmente a fine pasto.Poi le cose sono cambiate e, grazie soprattutto ai primi esperti nostrani che si sono messi a studiare approfonditamente la questione creando delle carte dei sake non solo nei (sempre più numerosi e validi) ristoranti giapponesi, oggi il fermentato di riso nipponico gode di un momento di popolarità del tutto nuovo nel nostro Paese. Un buon motivo per saperne qualcosa di più.
Il sake (senza accento, anche se la pronuncia prevede che cada comunque sulla e finale ma senza troppa enfasi) è una bevanda alcolica, ma non è frutto di distillazione bensì di fermentazione.Questo vuol dire che è più vicino al vino che ai liquori, e lo conferma la gradazione che si attesta tra i 12 e i 16 gradi. Anche i suoi aromi, a volta, trovano descrittori simili a quelli del vino bianco ma, a differenza del fermentato d’uva, il sake è (spesso) quasi incolore, non ha tannini né solfiti e ha una bassa acidità. In giapponese l’ideogramma di sake – che in origine indicava l’alcol in generale – è composto da due ideogrammi di base: quello per acqua e quello per medicina, il che ci dice qualcosa sul consumo radicato della bevanda, confermata da un antico proverbio che recita “il sake è la miglior medicina”.
Sebbene sia perlopiù legato alla cultura giapponese, ci sono piccole produzioni di sake anche fuori dal paese (tra cui anche uno italiano, il Nero realizzato da InFermento con il riso nero vercellese de gli Aironi sulla base delle sperimentazioni della mixology di Affini, che è però solo un parente lontano del fermentato giapponese). Per questo, c’è un termine più appropriato per indicare il sake giapponese: nihonshu, “il vino del Giappone”. Anche se il concetto di terroir non è ancora molto applicato e il sake è prodotto in tutto il Giappone, è stata riconosciuta una prima GI (Indicazione Geografica) per quello della prefettura di Yamagata è si sta lavorando per ampliare la tutela anche a livello internazionale.
Collegato ai miti della fondazione del Giappone, il sake è prodotto quasi da sempre (le tracce storiche lo daterebbero verso la fine del periodo Jōmon, che va dal 10.000 a-C. al 300 a.C.) in parallelo alla coltivazione del riso, introdotta qui dalla Cina: la leggenda narra che il dio Susanoo ne usò ben 8 barili per stordire e addormentare un serpente a 8 teste salvando così una principessa e – una volta uccisolo – trovandovi dentro una spada sacra. A quanto pare la sua origine si dovrebbe alla fermentazione attivata dai lieviti naturali ed enzimi della saliva con la masticazione del riso, ed era usato a scopo medicamentoso. Sicuramente la bevanda fermentata – che è parte integrante di molti riti e scintoisti – è legata alla storia dei samurai e delle geishe, che tuttora sono delle figure fondamentali della cultura e dell’ospitalità nipponica; se le prime lo usavano anche per la cura della pelle, i secondi ne bevevano in abbondanza per darsi coraggio e come anestetico, all’occorrenza.
Dal Medioevo si diffonde l’uso del koji – aspergillus oryzae, un fungo responsabile della saccarificazione del riso che lo predispone a essere fermentato, con un processo simile a quello della maltazione dell’orzo per la birra – e si deve soprattutto ai monaci buddisti la raffinazione sempre maggiore delle tecniche di produzione e dei risultati ottenuti, con l’utilizzo di starter per la fermentazione (oggi spesso sostituiti da acido lattico). Nel periodo Kamakura (1185-1333) c’è una notevole espansione della produzione – con la nascita di cantine soprattutto a Kyoto – e del consumo a tutti i livelli sociali, mentre nel periodo Edo (1600-1867), con la diffusione delle prime forme di pastorizzazione e di una maggiore strutturazione della produzione, il settore conosce un importante sviluppo.
È invece durante il periodo Meiji – i 44 anni di regno illuminato dell’Imperatore Mutsuhito, che inizia ad apportare delle modifiche profonde all’assetto sociale e culturale giapponese guardano al modello occidentale e mettendo fino allo strapotere dello shōgunato – IL TERREMOTO DEL 2011 HA POSTO L'ATTENZIONE ALLE PRODUZIONI ARTIGIANALIche l’Occidente conosce la bevanda, presentata per la prima volta ufficialmente all’Expo di Vienna nel 1873. Dagli anni ’70 del ventesimo secolo, tuttavia, anche a causa della crescente tassazione e della diffusione di diverse abitudini sociali e di consumo, il sake conosce una forte crisi ed è mano a mano abbandonato soprattutto dalle giovani generazioni. A quanto pare è stato anche il disastroso tsunami e terremoto del Tōhoku del 2011, e i conseguenti danni alle centrali nucleari di Fukushima, ad aver attirato nuovamente l’attenzione sulle produzioni artigianali delle aree colpite facendone crescere il consumo come segno di sostegno economico e spirituale. È probabilmente così che anche noi abbiamo iniziato ad accorgerci del sake.
Gli ingredienti base del sake sono: acqua, riso, koji e lievito. Non sono aggiunti zuccheri né solfiti, conservanti, coloranti. La qualità dell’acqua – più o meno dura – può incidere molto sul carattere finale del sake, definito maschile o femminile. SOLO ACQUA, RISO, KOJI E LIEVITO SERVONO PER LA PRODUZIONE DEL SAKEIl riso ideale per la sua produzione è quello di varietà Japonica, e nella versione meno glutinosa; per intenderci, è lo stesso usato per il sushi ma ci sono delle tipologie particolarmente adatte alla fermentazione e al tipo specifico di sake che si vuole ottenere. Riguardo al koji, il nome si riferisce anche al riso maltato aggiunto a quello sano in percentuali predefinite – ci sono anche dei rari sake all koji, cioè ottenuti dal 100% di riso maltato, che hanno un carattere decisamente unico e molto più pieno e rotondo – mentre i lieviti (kōbo) usati come attivatori sono prodotti in gran parte dalla Brewing Society of Japan e caratterizzano i differenti stili di sake. In alcuni casi si aggiunge anche dell’alcol (jōzo) derivato da melasse, per massimo il 50% del volume totale; l’aggiunta non serve ad aumentare la gradazione ma per dare più aromi, smorzare la dolcezza o l’acidità e così via; i sake senza aggiunta di alcol sono definiti junmai. Spesso sono diluiti con acqua per abbassare la gradazione, prima del confezionamento; i sake non diluiti sono definiti genshu.
Orientarsi nella selva di definizioni – perlopiù scritte in ideogrammi sulle etichette, dunque incomprensibili a chi non legge il kanji – e distinzioni del sake è un’impresa ardua. Ci limitiamo a distinguere le varietà principali – ricordando alla base la distinzione dello junmai o meno – che si differenziano soprattutto per il livello di raffinazione del riso, step fondamentale della produzione del sake seguita da: lavaggio e ammollo, cottura e raffreddamento, saccarificazione (per creare il kome-koji, o riso maltato), la fermentazione, la pressatura, il finissaggio, la prima pastorizzazione (facoltativa ma consigliata), l’affinamento (da sei mesi a un anno, in botti di legno di cedro o taru) ed eventuale diluizione, la seconda pastorizzazione (opzionale, per rendere più duraturo i sake che altrimenti sonb definiti nama-zake, crudi) e l’imbottigliamento.
A seconda del livello di raffinazione del riso i sake si distinguono in futsu-shu (alcol ordinario, o sake da tavola, ottenuto da grani di riso di grandezza percentuale maggiore del 70% dopo la raffinazione), honjozo o junmai (meno de 70%), ginjo o junmai ginjo (60% o meno), daiginjo o junmai daiginjo (50% o meno); gli ultimi due – ginjo e daiginjo – sono considerati sake premium o ultra-premium e sono contraddistinti da sentori di frutta tropicale, fiori e anice, ulteriormente esaltati nelle versioni junmai.
Il sake andrebbe consumato fresco – o perlomeno non invecchiato in bottiglia (cosa che non apporta alcun miglioramento, anzi) e tenuto al riparo da luce e calore; meglio conservarlo – avendo cura di tenerlo in piedi per evitare il contatto con il tappo metallico – in frigo a 8°C, soprattutto per quelli non pastorizzati che vanno consumati preferibilmente entro 6 mesi dalla produzione (e che è dunque difficile trovare fuori dal Giappone). I sake rovinati possono avere sentori sgradevoli di verdure fermentate, malto, zolfo.
Nelle occasioni formali e nelle cerimonie il sake si serve nei masu, tazze quadrate di legno di cedro giapponese suggestive ma piuttosto scomode. SE NON AVETE LE TAZZINE TRADIZIONALI, I CALICI DI VINO A TULIPANO VANNO BENEAltro recipiente tradizionale è l’o-choko (una tazzina di ceramica da cui sorseggiarlo pian piano, versandolo dall’apposita caraffina tokkuri), in varie fogge legate a usi e zone. In realtà, per apprezzare al meglio le sfumature aromatiche del sake vanno benissimo i calici da vino a tulipano; in alternativa, la Riedel ha creato degli appositi calici da sake daiginjo, dalla pancia pronunciata e la bocca stretta.L’ideale, soprattutto per i sake premium, è servirli freddi (tra i 5° e i 9°C). Se lo si vuole consumare caldo, invece, solitamente si scalda il tokkuri a bagnomaria; anche in questo caso, a voler seguire gli usi tradizionali ci sarebbero tutta una serie di regole e denominazioni in base alla temperatura.Diamo solo qualche indicazione di etichetta: caraffe, bottiglie e tazze andrebbero prese sempre con due mani, e si dovrebbero servire prima gli ospiti più anziani o più importanti; si versa sempre il sake agli altri commensali e si lascia che siano gli altri a versarlo a noi: è un atto di cura, rispetto e armonia. Il brindisi tradizionale è: kanpai!
Un detto giapponese recita “Il sake non litiga mai col cibo”, a indicare tanto la sua versatilità quanto il fatto che i giapponesi non siano troppo schizzinosi negli abbinamenti; insomma difficilmente troverete un sommelier che vi indichi cosa ordinare con questo o quel piatto e poterete scegliere la tipologia che più vi aggrada (lasciandovi guidare dalle provvidenziali note di degustazione talvolta riportate sui menu). In generale, possiamo dire che grazie al suo gusto non invadente, il sake non copre il sapore del cibo ma ne prolunga e amplifica le sensazioni (per esempio, il piccante) lasciando pulito il palato, e arrotonda i sapori grassi e intensi. I criteri di abbinamento sono dunque per assonanza, basati su intensità e struttura: cibi salati esaltano il fruttato della bevanda, mentre per i cibi dolci è meglio andare su un sake spiccatamente dolce.
Oramai entrato nelle drink list e nelle bottigliere di molti locali italiani, il sake si presta anche come ingrediente per cocktail fantasiosi e con una piacevole impronta orientale (anche se dà il meglio di se assoluto, o in preparazioni molto semplici). Qualche esempio: qualche anno fa, quando guidava il bancone di Collegio a Roma, Emanuele Broccatelli proponeva il buonissimo Kanpai con sake plum, latte di mandorle, green tea soda e ginger syrup, mentre all’Origami Lounge e Saké Bar Fabio Cesareni aveva messo a punto tutta una linea di cocktail a base sake tra cui il Jasmine Green Tea (tè verde al gelsomino, saké, scorza di limone, zenzero e lemon grass) e Diego Ferrari – specializzato nei drink low alcohol – ha creato il Japanito, variazione del Mojito a base di sake e te verde kombucha invece del rum. Affini a Torino propone l’Amarikè Dry (sake Nero, liquore zucca, vermouth dry, liquore ai fiori di sambuco).
A Napoli lo ritroviamo tra gli ingredienti del Kaoru Lavanda (liquore al sambuco, sake, gin, succo di lime, sciroppo di lavanda e cetriolo) di Staj, il primo noodle bar partenopeo. A Roma da Drink Kong c’è una sala omakase tutta dedicata al Giappone. DA DRINK KONG C'È UNA SALA OMAKASE TUTTA DEDICATA AL GIAPPONELa storia del barman Patrick Pistolesi con il sake è lunga e complessa, il suo amore per il Giappone lo ha spinto ad approfondire l’argomento, anche se dichiara di preferire quelli giovani e leggeri, oppure aromatizzati: come il Kizan, che rimane leggermente fruttato ed asciutto, o quelli all’allume(prugna) o allo yuzu. Nel 2014 ha usato quest’ultimo in una ricetta che ha portato alla finale mondiale di cocktail, la Nikka Perfect Serve: “Preparai un Whiskey Sour con aggiunta di sake yuzu, quel drink mi fece vincere e volai in Giappone, ma questa è un’altra storia. Il sake secondo me trova spazio in un cocktail bar moderno, in fondo è un vino di riso e di prodotti simili ne è pieno il frigo del giovane barman, pensiamo ai vermouth dry o bianchi o ai meravigliosi sherry fino. Il sakè assieme ad un altro paio d’ingredienti può costruire dei delicati drink a basso contenuto di alcool, ma di una complessità tale da far sorridere i palati più esigenti: mi viene in mente un twist su di un BamBoo cocktail o un Sake Martini, magari un bell’Adonis all’orientale. Sky is the limit!”
A Milano ci sono Sakeya, la prima “House of Sake” italiana aperta da Lorenzo Ferraboschi (responsabile italiano della Sake Sommelier Association (SSA) ) e Maiko Takashima, fondatori anche della Sake Company, e la Saketeca Go, con un’ampia carta dei sake. A Roma alla Rimessa Roscioli Gae Saccoccio organizza serate e incontri dedicati.
Si stanno diffondendo anche da noi le izakaya, tradizionali locali giapponesi a metà tra la trattoria e il pub dove si va principalmente a bere sake o birra da accompagnare con del cibo semplice: da Kanpai Milano a Umami o Mikachan a Roma. Non sono ancora arrivati da noi, invece, i sake in lattina o nelle cup trasparenti monoporzione che hanno contribuito a rendere questo prodotto di nuovo pop in Giappone.kanpai!grazie #agrodolce.it!
L'origine della coppetta è naturalmente incerto. Proprio come ogni bella storia del mondo dei cocktail.
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