A differenza di molti altri paesi europei, l’Italia detiene ancora un piccolo record nel consumo di vino pro-capite tra la popolazione. È vero, la crescente cultura del luppolo, con la sempre maggiore diffusione di birre artigianali, ha subito un forte exploit negli ultimi anni. Nonostante questo, però, il vino resta un caposaldo della somministrazione pre e after dinner, insieme ai cocktail di tendenza e agli stili di birra più ricercati.
Spesso, però, una scorretta gestione del prodotto possono penalizzare pesantemente sugli incassi e, di conseguenza, declassificare il prodotto perché “non si vende”. Non sempre è vero e, anzi, quasi sempre basta più che altro cambiare strategie di gestione e somministrazione per trovare soluzioni intelligenti e, soprattutto, remunerative.
Negli ultimi anni, uno stile di vita più salutista ha, per esempio, ridotto la richiesta di vino a pranzo, concentrando allo stesso tempo la scelta di questa bevanda nelle ore serali. Ma il vino si preferisce ancora alla birra perché “non gonfia”, ma anche perché l’alfabetizzazione sull’argomento è oggi molto più profonda e diffusa rispetto al passato.
Se, come noi, hai qualche annetto in più ricorderai sicuramente come solo fino a poche decine di anni fa i vini alla carta del ristorante o del bar erano esclusivamente tre: rosso, bianco e “rosè”, tra l’altro rigorosamente “della casa”. Oggi la scelta di denominazioni, varietà territoriali, stili di vinificazione e tipologie di vini rende la selezione e l’offerta molto più ampia, ma anche più complicata da gestire.
Per questo è fondamentale rivolgersi sempre a fornitori che non si limitino solo a consegnare le referenze, ma che sappiano includere nell’offerta anche la propria consulenza sui prodotti più indicati per il locale [].
Ma anche saper individuare le preferenze del pubblico in modo diretto e ottimizzare la gestione del magazzino per evitare gli sprechi. In questo, la somministrazione di vino al ristorante è molto diversa da quella che avviene in un bar o in una enoteca.
Vediamo allora 5 consigli per organizzarsi e migliorare gestione, somministrazione e incassi del vino in un bar.
A differenza del ristorante, dove l’acquisto è orientato sempre all’intera bottiglia, in un bar questa possibilità è tutt’altro che scontata.
Che sia al bancone o al tavolino, il vino al bar è sinonimo di “bicchiere”, o meglio, di calice. L’offerta va, quindi, completamente pensata sotto questo punto di vista, partendo dalla principale criticità: le rimanenze.
Ovviamente, risulta sconveniente aprire un’intera bottiglia per la somministrazione di un solo bicchiere, per problemi legati all’ossidazione e alla veloce deperibilità del prodotto.
Se questo problema ricorre costantemente, mettendo a rischio gli affari, una soluzione può essere quella di concentrarsi su una minore offerta di etichette, selezionate con più cura. Una minore disponibilità di etichette, ma di buona bevibilità, spingerà necessariamente al consumo degli stessi, ottimizzando gli sprechi.
In rapporto, un calice di vino costa più di un’intera bottiglia.
Per un professionista è sicuramente scontato, ma spesso non lo è per il pubblico. Se il ricarico sul vino è stato studiato a dovere non ci resta che pensare ad una formula sconto efficace, che dia la possibilità ai clienti di acquistare l’intera bottiglia ad un prezzo più conveniente, per incentivarne il consumo.
Una strategia, purtroppo, ancora poco adottata, ma in grado di fare la differenza.
Come detto, questo aspetto rappresenta la criticità principale per chi opera dietro al bancone. Soprattutto quando, a fronte di una minore ma più diretta selezione, si sceglie di concentrarsi sulla qualità di pochi prodotti ad alta bevibilità o prestigio.
In questo caso esiste un trucchetto, ancora poco adottato: il tappo sottovuoto. Un dispositivo da pochi euro che consente la chiusura della bottiglia estraendo l’aria al suo interno.
Un economico quanto efficace investimento, in grado di garantire maggiore longevità al vino, ottimizzando gli sprechi e preservando gli affari.
La carta dei vini di un ristorante è fatta, solitamente, di un nutrito numero di referenze. Il magazzino è più grande, il menù ampio e variegato e il vino, come detto, si vende a bottiglia.
Nel bar la questione è un po’ diversa e parte da un presupposto essenziale: qui, più che altrove, per vendere un vino è fondamentale raccontarlo.
Una carta dei vini ricca, articolata, anche ben costruita se vogliamo, lascia un po’ il tempo che trova se non si è in grado di gestirla o il locale non è adatto a farla funzionare. Poche referenze, ben mirate e bilanciate tra vini locali, nazionali e stranieri (nella formula 60%-30%-10%) rappresentano talvolta una soluzione più virtuosa.
Meglio un solo vino frizzante, anche più economico di altri, ma davvero adatto all’offerta di brunch, aperitivo o, più in generale, alla filosofia del locale, che una vasta scelta di etichette che non si vendono.
Ma, più di ogni altra cosa, è fondamentale avvicinare il pubblico all’assaggio in modo coinvolgente, creativo e professionale.
Come detto, un fornitore di vini non è più un semplice corriere delegato a consegnare le referenze. Spesso si pensa che rivolgersi a grandi aziende di distribuzione sia meglio perché l’assortimento è più ampio. Ma, specie per un bar, come abbiamo visto, serve in realtà qualcosa di diverso.
Un fornitore è innanzitutto un consulente esperto in materia. Un professionista in grado di collaborare con il titolare del locale nella selezione dei prodotti più indicati per la sua attività.
Scelta delle etichette, proposte di tendenza, abbinamenti con il menù, condizioni commerciali favorevoli sono tutti punti da valutare con cura nella scelta di un fornitore.
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Creato da una delle più famose Barlady di tutti i tempi: Ada Coley Coleman.
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