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Che mito il Martini, la Ferrari dei cocktail

Che mito il Martini, la Ferrari dei cocktail

Storia e leggende, del più classico e letterario dei drink. Il mistero delle origini, gli illustri estimatori e la battaglia sulla ricetta perfetta. Che non esiste

Il Martini sta al mondo dei cocktail come la Ferrari sta a quello della Formula 1. Senza di loro, i due mondi non avrebbero fascino né probabilmente sarebbero in grado di scatenare nessun tipo di passione. Per questo il nostro viaggio attraverso i cocktail parte proprio dal più famoso, raccontato e celebrato degli aperitivi, il Martini. L'unico con una vera e propria letteratura alle spalle. "Alcoolicamente" scorretto perché il gin è padrone assoluto e il vermuth extra dry che gli dà il nome, viene confinato nel ruolo “di azionista di irrilevante minoranza”.

Il Martini è una sorta di mondo a parte. Fatto di racconti incredibili, tradizioni affascinanti, storie grandi e storie piccole. Dalla letteratura al cinema, da Hemingway a James Bond. Una quantità enorme di parole e immagini per uno dei cocktail, che almeno sulla carta, sembra tra i più semplici da preparare. In fondo, si tratta di gin (per una minoranza Vodka o entrambi nel caso del Vesper) con una minima (talvolta infinitesimale) quantità di Martini Extra Dry, miscelato per non più di 10-15 secondi in un mixing'glass pieno di ghiaccio e servito in una coppetta ghiacciata. Per finire, scorza di  limone (twist) rigorosamente da strizzare sopra la superficie del cocktail,  una o meglio ancora, tre olive. Tutto qui? Tutto qui. Nel senso che qui comincia la vera storia del Martini. Anzi le storie. Perché il drink del mito porta con sé leggende e ritualità. Intanto le origini, ovviamente controverse. Qualcuno fa risalire tutto al barista italiano che a New York, agli inizi del Novecento, l’avrebbe preparato per John D. Rockefeller. Altri dicono che il nome derivi dal celebre cocktail di Jerry Thomas (detto The Professor) il Martinez (fine Ottocento).  Ma chi vuole farsi un’idea un po’ più precisa delle origini (e non solo) consigliamo la lettura di “Martini Straight Up” di Lowell Edmunds, tradotto in Italia nel 2000 ed edito da Archinto con il titolo “Ed è subito Martini”. Secondo l’autore la prima ricetta del Martini è quella proposta da O.H. Byron nel 1884 (due schizzi di Curacao, 2 di angostura, mezzo bicchiere di Gin e mezzo di Vermut italiano).

Imperdibile la prefazione di Umberto Eco, soprattutto quando spiega il suo vero sogno. Che non è quello di diventare presidente del Consiglio, cardinale o magnate del petrolio ma di avere «in ogni città del mondo un bar dove poter entrare e dire in prima istanza “il solito” e possibilmente un altro dove senza dir nulla venga automaticamente servito un Gin Martini, ovviamente in proporzioni 16:1». La conclusione? Quel bar non esiste perché  «Il Martini migliore è quello che ti fai da te … tanto che oserei dire che il momento magico è quello in cui lo si fa, non quello in cui lo si consuma».

L’idea che “ognuno ha il suo Martini”.

«Il Martini non è una "roba da bere", è rito, è mito, è leggenda che diventa storia. E sarà sempre così». Definizione da prendere alla lettera dato che è difficile trovare qualcuno che ne sappia di più sull’argomento. «Il presidente Roosvelt invece, ha sdoganato il Dirty Martini, versione senza oliva sostituita dalla salamoia in grado di dare una sapidità pungente e un gusto salmastro molto incisivo». Ma le "stranezze" non finiscono qui. «C’è anche il Martini on the rocks, quello preferito da Eco, versione che fa sgranare gli occhi ai puristi del gin e che suscita una reazione sdegnata non tanto diversa da quella degli amanti delle bollicine che reputano sacrilega l’aggiunta anche di un solo cubetto di ghiaccio al prezioso liquido».

martini

“Agitato o mescolato”?  dove sembrerebbe avere la meglio la versione “shaked not stirred” diventata celebre grazie al suo più famoso bevitore, James Bond, che però beve Vodka Martini. «Eppure la versione inversa, mescolato e non agitato, ha nelle parole di Somerset Maugham, una sensuale spiegazione: va mescolato perché le molecole del gin e del vermouth si devono adagiare sensualmente le une sulle altre».  Finito qui? Macché.

C’è ancora il Martini “riposato” che non fa torti a nessuno, né mescolato né agitato, ma «lasciato a riposare qualche secondo a contatto con il ghiaccio in modo che gli elementi si compenetrino in maniera meno omogenea e senza incamerare ossigeno e il sapore del vermouth arrivi ad onde». Potrebbe sembrare tutto molto esagerato. Ma non per il Martini e la sua mitica “coppetta”, uno dei più brillanti design di tutti i tempi. Il re dei cocktail non ha una versione definitiva. L’unica certezza è che deve essere ghiacciato (così come la sua coppetta) e secco, tanto secco. Cosa che viene determinata dalla quantità di Vermouth extra dry (oppure Noilly Pratt, ultimamente sempre più diffuso) rispetto a quella del gin. Naturalmente, anche in questo caso ci sono storie e storielle infinite. Di Churchill si racconta che al momento di versare il Vermouth si limitava ad un inchino verso la Francia. Bunuel, invece, riteneva bastasse che la luce attraversasse la bottiglia di Vermouth per colpire quella di gin.

Ernest Hemingway in “Di là del fiume e tra gli alberi” parla del Martini 16:1, il famoso “Montgomery” che prende il nome dal generale inglese che non voleva attaccare a meno che le sue truppe non superassero quelle del nemico 15:1. Anche questo è il bello del Martini. «Sulla quantità di vermouth tutti possono sfidarsi all'ultimo sangue pur di affermare che la propria visione è quella definitiva, la più importante.

La forza del Martini Cocktail sta esattamente qui:  nessuno avrà mai l'ultima parola e questo gli garantisce la vita eterna».

Salute!

S.

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